sabato 14 agosto 2010

Agosto

Sabato
La valigia aperta sul pavimento. I biglietti e documenti sul tavolo. Non scordo nulla. Parto.

Venerdì
Milano. Agosto. Grigio. Di tanto in tanto un illusorio sprazzo di azzurro. Di tanto in tanto uno sfuggente bagliore d’estate. La stazione è deserta (ma neanche troppo), le strade vuote (ma neanche troppo). Cammino sul marciapiede bagnato. Dentro il mattino. Muovo le labbra sulle parole della una canzone che mi piace (adesso). Assaporo i dettagli (miei, segreti). Già so che l’aria strana di questi giorni così sospesi svanirà anche troppo in fretta.
Sono un’amante infedele. Amo l’estate. Amo l’autunno. Con la medesima intensità. E anche questo tempo incerto che ti lascia intendere che l’estate sia finita e poi ti sorprende e ti fa svestire dei vestiti di troppo.
Quando maggio incalza mi lascio sopraffare dall’angoscia dell’idea della stagione che inizia. L’idea delle giornata lunghissime, dell’eccesso di luce e calore. Ora mi inquieta guardare le giornate accorciarsi, il pensiero del buio e del freddo. Il necessario dolore dell’abbandono che precede l’intensità di un nuovo amore.
Se poi sia possibile vivere le cose in questo modo. Se poi abbia senso. Se poi sia adulto. Se poi sia normale. Non so. Non so


Martedì.
Resto in ascolto. E mi aspetto di sentirne i suoni. Portai da vento. Sfumati e confusi. Ma reali. Dagli abissi più profondi. E dalle galassie più distanti. Mi aspetto di sentire che l’istante sia mio. E mio soltanto. Mi aspetto di essere il centro. Al centro.
Esiste più di un modo. Un modo per sfuggire al respiro claustrofobico di questa stanza. All’aria densa e pregna degli ego e degli egoismi. Di un certo fastidio silenzioso e violento. Muto. Non sono migliore. Ma sono diversa. E delle volte sento di non poterci vivere. Come una pianta in un ambiente sterile. Senza luce. Senza ossigeno. Esagero? A volte esagerare non serve neppure. Io non respiro. Io ho smesso di brillare. Sopravvivo. Ed è questo che più fa male.
Suona la fine della mia giornata. Prendo la borsa, metto gli occhiali ed esco. Esco. Ed è sempre troppa aria e troppa luce. Troppo spazio libero tutto insieme. Ossigeno. Da far girare le testa. Da far venir voglia di piangere. Piango sempre, sono un disastro. Una frana. Piango con gli occhi o solo coi pensieri. Piano per troppa emozione. Per l’incapacità di gestire le ondate dei sensi. Per troppa luce e troppo vento. Per troppa vita.
Cammino. La strada è lunga e deserta. Al sole. La musica che alza i toni. Delle volte canto muovendo solo le labbra. E sorrido. E cammino via via più leggera. Come se perdessi peso. Come se perdessi le cose inutili, i pensieri sterili. E magari piango e sorrido. E magari mi concedo il lusso di sognare per sognare. Per il piacere di immaginare.
Immagino. Ma la campanella non è ancora suonata. Silenziosi omuncoli dietro le scrivanie a scrivere. Dietro la mia a chiedermi. A domandarmi cosa posso immaginare adesso. Se c’è una stella. Se c’è una strada. Non crescono fiori su questi prati. E io ho paura di sfiorire. E io ho paura di non saper più cosa desiderare.

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