giovedì 22 maggio 2008

the soup of the day

Mi chiedo che cosa si possa scrivere in un pomeriggio così scrosciante di pioggia e silenzio. mi chiedo cosa ci si possa mettere dentro questo pomeriggio saturo di grigi per sentire meno freddo. [stanotte ho avuto freddo da morire, non ho chiuso occhio].
Io ci metterei una sera d’agosto.
Camminiamo lungo la via pedonale con addosso la stanchezza di una giornata di vento e vento [e forse di nuovo vento e qualche goccia di pioggia blu] a Innishmore. Lui fuma una sigaretta, forse un pallmall o una winstonblu. Io tengo le mani affondate nelle tasche di quella che con tutta probabilità è una felpa morbida col cappuccio. L’aria della baia la sera è fresca anche in agosto [avevo sempre freddo allora], ma le ragazze qui sembrano non farci caso, svestite in abitini svolazzanti mi fanno sentire penosamente inadeguata. La strada dalla casetta di Joan al centro è lunga ma i gabbiani sulla baia e i riflessi del tramonto distolgono l’attenzione dal resto. Lo prendo per mano e mi lascio un po’ trascinare. ‘Cosa mangiamo?’. L’idea di un estenuante valutazione dei locali e la scelta del miglior compromesso di qualità/prezzo/atmosfera mi sconforta un po’, anche perché il rischio di un errore è alto. Scegliamo un posto dove siamo già stati. Entriamo nel ristorante e l’aria calda e il profumo di cose da mangiare mi fa rendere conto di avere, nonostante la mia convinzione di esserne immune, fame. Il locale è quello che ci si può immaginare [bellissimo]. Legno e moquette verde, finestre a ghigliottina, separè tra i tavoli. La cameriera bionda ci fa sedere ad un tavolo, ci apparecchia e ci da i menù. ‘Io ho fame’, dice lui. Leggo. Leggo. Leggo. Sono troppo stanca per qualsiasi cosa ma non per una soup of the day [ma perchè non scrivono che cosa c'è dentro? speriamo non cipolle...] e delle baby potato [jacked potato, piccole patate roventi con un giubbetto alla arthur fonzarelli. ehy]. La cameriera, con un invidiabilissimo nasettino punteggiato di lentiggini, prende nota, un filetto [per lui], soup [la mia pronuncia della parola soup deve essere agghiacciante perché non sono mai compresa da nessuno] e baby potatoes come piovesse. Esita. Come sempre le mie ordinazioni non soddisfano mai chi di dovere. ‘That’s all’. Sorrido. Niente Beamish [ch'io odio] stasera, birre chiare, ambrate sotto le luci del locale. Sorride un po’. Mi prende la mano. Commenta ironicamente la mia nausea mortale sul traghetto e il mio umore acido e pungente nel giro in bici dell’isola. Siamo qui. Siamo esattamente dove avevamo sognato. Ride quando la cameriera ci porta i nostri piatti e non vuole credere che io non voglia topping per le patate, snocciolando una lista infinita di salse non si arrende a mi porta comunque un vasettino di salsa tartara esasperata dalla mia mancanza di buongusto. Ridiamo un pò mangiando le piccole patate roventi con la loro giacchetta. È perfetto. Come tornare a casa [in quella casa uscita da un romanzo di joseph o'connor e piombata diretta davanti ai miei occhi] e lasciarmi abbracciare per scaldarmi un pò. Mentre il buio è sceso sulla baia.
E' a questo che penso per scaldare questo pomeriggio gelido [dentro e fuori]. E' a questo penso per tenere insieme i miei pezzi oggi che sono sempre sul punto di infrangermi. E' a questo penso. E' a te che penso.
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