Un corsa fino a Lambrate. L'asfalto del marciapiede che riflette le luci gialle della strada. Corro lungo i fili del tram. Le saracinesce abbassate. I bar che stanno chiudendo. Il suono dei miei passi. Sorrido. Corro. Mi sento stranamente leggera e libera. Salgo col respiro affannato le scale fino al binario 4. Il treno è troppo caldo. Tolgo la mia giacchina di maglia e la sciarpa, lunghissima. Allungo le gambe. E mi lascio scivolare fluida nel buio, verso casa.
Trovo una penna frugando nella mia borsa giappo. Mi metto a scrivere sul blocco. Scrivo di questa sera che sa di menta. E di me, che ci sono dentro. Con un sorriso accennato. Col mio sguardo incerto riflesso dal finestrino. Con la paura di sbagliare, di farmi male. Con la voglia di fare a pezzi i fogli che portano scritte le parole del mio stupido dolore di vivere.
Stop.
Tutto sembra più chiaro, più semplice, a quest'ora della sera. Ora che le ventole dei pc e le luci al neon sono spente. Ora riesco quasi a guardarmi dall'esterno. E se l'istinto è di distogliere lo sguardo, di difendermi, tengo invece gli occhi aperti e osservo i miei colori e i miei contorni.
Non è l'immagine edulcorata degli occhi degli altri. Nemmeno quella defomata della mia immaginazione. O quella strana riflessa dallo specchio, che ti guarda sempre negli occhi. Sono io. Un corpo e un'anima nudi nell'impietosa luce della sera.
Parlo di me. Di quello che vedo.
Io sono una brava ragazza. Banalmente. Un pò per scelta un pò per forza. Un pò perchè non so essere in nessun altro modo. Un bimbetta col broncio che porta a spasso il suo carattere mutevole e lunare come una cagnolino al guinzaglio. Un cagnolino abbasioso e magrolino.
Trasformo sciocchezze in guasti nucelari. Piango fiumi di lacrime. Grido in silenzio. Ma poi è un attimo a far tornare il sereno e il sorriso. Non conosco rancore. Ma bene l'orgoglio ferito di chi non sa serbare rancore.
Ho le mie guerre e le mie ferite. Cicatrici. Di tutte queste una.
Sulla mia pelle una riga bianca. Che brucia ancora a farci scorrere il dito sopra. La ferita della mia battaglia. Della mia guerra. Per il controllo. Sul mio corpo, sui miei istinti, sui miei desideri. Una guerra di nervi e silenzio. Parole non dette. Il fascino ingannevole della mia immagine riflessa. Perfetta. E poi vedere, occhi negli occhi, la paura. E gridare, graffiare, scalciare e stringere i pugni. Per trovare la strada per venire fuori da quel gigantesco inganno. Il controllo assoluto. E tornare a vivere. Alla luce. All'aria. Respirare con fatica coi miei polmoni contratti dallo sforzo. Di vivere. E imparare di nuovo a perdonarsi, a comprendersi, a perdere lo stramaledetto controllo.
E i segni sulla pelle, che rimangono, cicatrici imperiture a ricordarmi quello che ero e quello che sono. E sentire la voce di quello che non sono più. Il rimpianto fasullo dell'apparenza.
E quella paura. Che il mio nemico possa tornare. Paura che quella me stessa possa ancora far male. Odiarmi. Imparare ad amarmi. Guardarmi. Giudicare.
Ma stasera. Stasera grido con gli occhi. Con la bocca chiusa. Stasera ci credo.
Io sono quella che sono. Io sono quella che voglio essere. Stasera lo sento. Io non ho paura.
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