sabato 2 febbraio 2008

cio che è mio...

Turn me on white curse
Use my love, it's yours
Turn me on white curse
Use my soul, it's yours
Turn me on white curse
What is mine is yours

venerdì 1 febbraio 2008

giovedì sera, ore 21

Il treno della sera è mezzo vuoto. Tre persone scarse su questo vagone, il secondo. Stiamo tutti in silenzio. Allungo le gambe verso il sedile di fronte distendendo un po’ i muscoli tesi.
Scarabocchio qualche parola con la penna blu sul retro di fogli stampati, appoggiata al libro di inglese. Il ragazzo che ci insegna inglese è il mio tipo. Decisamente. Capello rosso e pancetta da birra. Un po’ troppa pancetta da birra a dire il vero. Penso che la mia pronuncia lasci ancora a desiderare. Penso che tutto sommato preferisco scrivere in italiano. Un po’ per povertà di linguaggio, certo. Un po’ perché, non so. L’italiano è una bella lingua da scrivere. Secondo me. L’inglese si ascolta con piacere. Ma per scrivere. Beh, per scrivere ci vuole l’italiano.
Un’occhiata distratta fuori dal finestrino: solo buio. Forse rimpiango di non aver studiato lettere. No. Nessun rimpianto. Scegliere che fare della mia vita non è mai stato semplice, e soprattutto non lo era dieci anni fa quando ho tirato in aria una moneta e ho scelto la mia strada tra le mille che affascinavano la mia immaginazione. E ho ancora quel modo un po’ romanzato di vedere le cose. Di immaginarmi in piedi sopra una collina durante un temporale ad attirare fulmini.
Oggi mi hanno detto che tutto ha un suo certo quel senso. Un filo degli eventi. Ci credo a metà. Ma la metà che ci crede ci crede fino in fondo.
Non so se sarò abbastanza brava da guadagnarmi il mio posto qui. Non so se sarò mai abbastanza brava da pubblicare un romanzo. Le due cose mi sembrano ugualmente improbabili stasera. Ma il treno entra traballante in stazione. È una fredda sera di gennaio. E a me piace sognare.

giovedì 31 gennaio 2008

palle

Sono passata attraverso i giorni di sole ma anche i giorni grigi e sordi. Sulla pelle il segno indelebile di poche ma grandi delusioni. Cicatrici. Sogni fatti a pezzi a calpestati da piedi ignoranti e arroganti. Ricominciare a credere. Inventarmi ogni volta qualcosa di nuovo. E in questo sono stata brava. Sempre. Ritrovare qualcosa da cui partire. Credendoci. E ancora ci credo. Nonostante tutto. E tutti. Ancora voglio credere che tutto questo possa portarmi da qualche parte. Per questo stasera mi sento fiera di me stessa. Non troppo. Solo un pochino. di ogni piccolo segno che questi ventotto anni mi hanno scritto addosso. In fondo me lo devo. Per il mio impegno. Per quel po’ di coraggio che porto addosso. Nel crederci. Nel provare. Nel riprovare. Perché no, nel provare un'altra volta.

(ma si coglie l'allusione?)

bella bellissima

A volte vorrei essere bella. Tanto per vedere come ci si sente. Così, senza impegno.
Un viso di simmetrie perfette e pelle di luna. Un corpo flessuoso e sinuoso da donna da far ondeggiare distrattamente per il corridoio. Tantissimi e lunghissimi capelli. Spargere il mio fascinare con ogni movimento ed ogni sguardo.
Vorrei sapere com’è sapere per certo che gli altri pensano che tu sia bella.
Premetto che vivo in un mondo di uomini. Maschile e a volte un tantino maschilista. Rifiutando il ruoli dell’amicona e dell’amichetta mi sento sempre un po’ al margine. Né dentro né fuori.
Forse se fossi bella mi sentirei diversamente.
Perché tra tutti quei discorsi da uomini a cui mi trovo mio malgrado a prendere parte sarei sicura di stare sempre dalla parte delle innegabilmente belle. Bella. Bellissima.
Nei giorni come questo, in cui mi sento uno schifo, dev'essere confortante sapere d'essere bella.

mercoledì 30 gennaio 2008

scrivo un pò

L’acqua mi piace. Che sia mare o che sia pioggia. O che sia solo liquido trasparente in un bicchiere di plastica. Mi piace sempre. E mi piace in fondo anche oggi mentre gocciola lenta ed impietosa giù da un cielo appena accennato tra i tetti, i rami spogli e i mattoni della ciminiera.
Guardo l’ultima compressa per il mal di stomaco rimasta sola nel blister incerta sul da farsi. Prenderla. O aspettare. L’eterno dilemma. Il bolo di spine che affligge il mio stomaco sembrerebbe suggerirmi di prenderla e regalarci, sia a me che a lui, un po’ di tregua. Obbediente obbedisco. Metto a bollire un po’ d’acqua nella speranza che un po’ di te serva a qualcosa. Ne dubito.
Il mio stomaco non è un esserino tanto docile. Ha carattere. A volte è così brutalmente sincero da costringermi a fare i conti con me, anche se non ne ho voglia. Come ora. Io non so cosa voglia ma l’insistenza con la quale si fa sentire mi sfinisce al punto che prima o poi sarò costretta a farmi la domanda. E certe domande a volte si preferirebbe rimandarle a domani. Provo a stordirlo con l’indigesta capsula e un po’ di te e biscotti ma il ragazzo non è stupido e prima o poi tornerà a farsi sentire. Credo provi anche un leggero piacere a torturarmi, per una specie di perversa vedetta verso la mia passata condotta non troppo ortodossa. Non gli do torto. Ma ora che lo tratto con più giudizio potrebbe farlo anche lui. E invece no, si contorce di colpo come un grumo di puntine e chiodi e mi ricorda che qualcosa non va.
Lo ignoro. O fingo di ignorarlo. Mi appoggio al calorifero e rimango a guardare il paesaggio fuori. Così rilassante nei toni del grigio. Delicatamente deprimente oserei dire. Non del tutto spiacevole. Anzi. Il porfido reso scuro dalla pioggia. Gli ombrelli colorati degli studenti che passano. E vanno via. O forse arrivano. Mi piace qui. Anche se so che non può durare. Lo stomaco si stringe attorno alla sua palla di punteruoli. L’incertezza. L’instabilità.

shh

piove su milano. piove di grigio e di gocce fredde e sottili sul mio viso rivolto in su. verso questo cielo che ingiotte e stordisce.
mi sento sola. sola in modo che fa rabbrividire le ossa. quel mio modo sbagliato di affezionarmi come un micetto alla prima ciotolina di latte che mi si porge. pateticamente tenera. teneramente patitica.
mi metto al lavoro. non senza un pensiero struggentemente dolce a quella pelle che è l'unica certezza che ho.

(pomini&mici)

martedì 29 gennaio 2008

ora di andare

a volte penso che potrebbe avere senso dormire qui. per annullare i perditempo. anche se i perditempo sono spesso la cosa migliore. la strada a piedi nel freddo camminando veloce con nelle orecchie una musica che mia piace. leggere e perdermi tra le pagine di qualche libro mentre il treno sgrana il lento rosario delle stazioni. a volte è il tempo che aspetto di più.
sono stanca stasera. mi sento un pò in difficoltà a fare i conti con questo stato di cose. e non è certo questo il momento. nè per farmi domande nè per rispondermi. non ci penso. semplicemente. ma non è che questo risolva le cose.
ma per fortuna ho una vita fuori da questa stanza nella quale io so chi sono. vorrei potermi fare capire. a volte. vorrei parole. a volte. non serve poi molto. ma a volte è troppo.
dopo quanto ho scritto farmi capire è una parola grossa. forse lasciarmi intuire sarebbe più corretta. ma in fondo non ho mai scritto per nessun altro motivo che non fosse il mio personale specchio. scrivo a me stessa.
e stasera mi scrivo parole conforto e comprensione. vai a casa ragazzina, la giornata è finita.

per aria

Seduta a gambe incrociate sulla mia sedia, in modo affatto professionale oserei dire, mi lascio letteralmente sopraffare dalla vastità e dalla varietà di materiale cartaceo che alberga sulla mia scrivania. Sbuca la stanghetta rossa dei miei occhiali [allora ci sono ancora] da sotto una decina di articoli [zanchettati de-zanchettati e zanchettati di nuovo] disposti in un irregolare e casuale ventaglio. I post it gialli, mezzi staccati, ovunque con interminabili appunti e appuntamenti, to do list e promemoria, nomi e numeri di telefono e parole inglesi di cui non ricordo mai l’ortografia corretta. Ho dimostrato sperimentalmente che l’utilizzo del blocchetto dei post it come sotto-tazza ne riduce l’adesività (e la vita utile) in modo non stracurabile. Il che non fa aumentare progressivamente l’entropia che mi avvolge.
Alt. Tiro il freno. Schiaccio il pulsante rosso. Allarme. Abbandonare la nave. Qui serve in colpo di spugna. E un colpo di genio.
Come dice la nonna “per fare l’ordine ci vuole il disordine”. Confermo e sottoscrivo. Morale: butto tutto per aria e poi mi metto a rimettere a posto. Però secondo un ordine nuovo, in accordo con nuovi criteri, nuove filosofie [se così si può dire]. A ri-ordinare nel senso più letterale del termine.
E la scrivania è solo la prima cosa in ordine di tempo. Ho tanto altro da fare. Tanto a cui pensare. Nuove scale di priorità. Nuovi punti di vista e criteri di valutazione.
Oggi è il giorno. Butto tutto per aria, come si dice. E ricomincio da lì.

lunedì 28 gennaio 2008

lunedì mattina

h. 9.00
si appresta una giornata di fuoco. una settimana intera da vivere. so che non sto facendo il meglio che potrei fare. e questo mi fa sentire peggio. la verità è che posso scrivere pagine e pagine di sfumature e dettagli. ma quello che conta è qui, tra le mie mani. e anche se sento di non farcela. devo darmi da fare. e farcela.
h.11.30
Sono entrata nel bagno delle donne. Ho chiuso la porta a chiave. Mi sono guardata nello specchio, occhi negli occhi, scostando appena un ricciolo ribelle dalla fronte. Un sospiro. Ho appoggiato la schiena al vecchio calorifero di ghisa e mi sono lasciata scivolare fino a sedermi per terra. Le braccia attorno alle gambe strette al petto. Le labbra a sfiorarmi appena i jeans un po’ scoloriti sulle ginocchia. Sono stata un po’ lì, immobile. Il calore eccessivo e confortante del termosifone contro la schiena. Il viso sempre più affondato nei tanti giri di della sciarpa colorata attorno al collo. Pensavo a cosa fare, a come venirne fuori, a come risolvere questo casino. Poi ho pensato che devo essere pazza. Devo essere pazza a stere seduta per terra nel bagno a riflettere sui miei problemi esistenziali. Pazza. Pazza. Pazza. In ogni caso resta il posto migliore.

domenica 27 gennaio 2008

domenica - pomeriggio

Una tazza di orzo, cacao e cannella. Calda. Confortante.
A scacciare una lieve sensazione di freddo che mi scorre sotto la pelle. Seduta sul letto a gambe incrociate col portatile acceso. Detesto lavorare la domenica. Fuori dalla finestra il pomeriggio ha assunto un morbido color panna. Mi rannicchio stretta stretta e me. Rimango zitta. Ascolto il mio cuore. Battere col suo ritmo scostante. Sussurrare parole malinconiche e morbide. Respiri. Parole che non riesco a scrivere, che non hanno suono.
Di nuovo mi ritrovo travolta dall’incalzare del tempo. Vorrei rallentarlo, per un attimo. Vorrei fermalo. Addormentarmi e guardarmi dormire. Senza sogni. Solo un sonno silenzioso e rasserenante. Ma già il tempo mi è sfuggito dalle mani. E l’ombra fresca della sera scivola sui contorni del paesaggio.
chiamo. tenerezza.

domenica - respirare

Faccio le treccine e mi metto il cappellino di lana. Le mani dentro i guanti. Le scarpe sporche di fango. Vado a correre. A volte porto un pò di musica. Più spesso ascolto il silenzio, i suoni del parco. Vento che soffia sul mio viso. Acqua che scorre lenta e scivolosa. Passi sulla terra gelata e su quello che resta del tappeto d'autunno di foglie secche. I motori sui viali non sono che suoni lontani. Inefficaci.
Oggi il cielo era altissimo. Azzurro e striato di poche nubi allungate e sfrangiate dal vento. L'orizzonte lontano e vicino, limpido di cime e di neve. Mi sembrava quasi che questa mattina potesse esplodere di luce da un momeno all'altro mentre perdevo i miei contorni, sfumata dal vento e dalla sensazione di avere intorno tutto quello spazio. Libero.
Il cuore batte più forte. L'aria entra fredda nei polmoni. Le labbra secche sorridono silenziose senza neppure saperlo. Poi i passi rllentano. E lentamente la magia finisce. Non senza lasciare una sensazione lieve di vertigine sotto la pelle. Che persiste.
Non voglio soffocare questa sensazione nelle mie ombre. Voglio aria. Voglio luce. Voglio respirare