venerdì 14 novembre 2008

Rice ball

Anche per la ragazza polpetta di riso è arrivato venerdì, a chiudere questa lunga settimana insonne ed emotiva. La mattina è iniziata sotto una pioggia nervosa e odiosa, per poi dipingersi con gli azzurri del cielo ed incendiarsi, ora, col fuoco del tramonto.
A volte vorrei pesare di più, semplicemente per tenere i piedi un poco più vicini a terra. Vorrei venisse meno quella capacità di perdermi e disperdermi nello spazio intorno. Svanire. Vorrei essere meno confusa, meno emotiva, meno introversa. Vorrei avere il coraggio delle mie emozioni. Vorrei dimenticare com'è sentirmi sbagliata, in colpa, ferita, inadeguata e storta. Vorrei che l'essere quella che sono non fosse un difetto, un errore. Ma sto divagando, perchè non era a questo che stavo pensando.
Stavo pensando alla ragazza polpetta di riso. Perduta davanti al tramonto. Trattenuta al suolo da fili sottili che stringono le cavilgie. Leggera di sera e di vento. Leggera. Che non fa che guardare le cose da punti diversi e scoprirle nuove, cambiate, altre. E nessuna cosa è come gliel'avevano raccontata, come la dipingono certi film a colori o come pareva guardandola dentro le fotografie. Nessuna cosa è come gli altri la vedono. Nessuno la guarda da dentro i suoi occhi.


giovedì 13 novembre 2008

innocenti illusioni

Gli occhi grandi e aperti persi dentro questo cielo bianco. Pensieri che gocciolano addosso senza rumore, come questa pioggia sottile. Novembre, che porta sulla labbra il sapore amaro delle conclusioni e il sapore sconosciuto delle promesse.

Succede a volte che non servano a nulla le premesse. Le poche righe iniziali in cui si mettono, per così dire, in chiaro le cose. Tu ascolti, annuisci ma poi pieghi il foglio in quattro e lo infili tra le pagine di qualche libro. Quando sarà il momento ci penserai. E, alla fine, quel momento arriva. E nel frattempo tu ci hai creduto, tu hai sognato, fatto e disfatto, ci hai messo la tua passione, la tue energia e tutto quando potevi. Di te. Poi apri il foglio e le premesse sono rimaste immutate. E ti accorgi di aver creduto nell’incredibile. Di aver lottato per cambiare cioè che non può cambiare. E non puoi prendertela con nessuno che non sia te stessa. E con le tue illusioni. Succede.

Giorni come oggi non passano mai. Giorni in cui rallenti fino quasi a fermarti. Giorni in cui riesci quasi a far scorrere il tempo all’indietro pur di riuscire a ritardare ancora un po’ il momento di andare oltre. Avanti. Ma nell’istante stesso in cui hai messo a fuoco l’incalzare dell’inevitabile ci sei già andata, oltre. E così. Via.



mercoledì 12 novembre 2008

Partire

Un sera di pioggia. Il buio e il freddo dell'inverno che si insinua lento tra i pensieri. Voglia di partire. Di viaggi. Di città fredde in cui congelarsi la punta delle dita per sciogliarle attorno ad una tazza enorme appoggiata al tavolino di un bar. Se potessi partirei. Scarabocchi sopra i fogli. Orecchie agli angoli della pagine di un libro. Gamla Stan. Inishmore. Nyhavn. Immagini che riempiono la memoria di sensazioni. La vita accelera in questi giorni. Ma se potessi partirei. Per sentirmi straniera. Per perdermi nelle parole incomprensibili delle lingue e dei dialetti. Mangiare cibo strano. Bere birra ghiacciata nonostante la temperatura sotto zero. Addormentarmi rannicchiata dentro piumoni bianchi in letti senza lenzuola. Svegliarmi nella luce strana che ha l'alba muofendosi verso nord. Come un uccello migratore al contrario. Voglia di partire. Di sentirmi libera. Libera in quel modo in cui ci sente.
...

domenica 9 novembre 2008

un istante di quiete

Ritagliare un istante di quiete. Mentre scende la sera e sfumano le ombre. Mentre la musica satura l’aria ed allontana i pensieri. Assopisce la ragione. Distende i nervi. Smetto per un attimo di rincorrere impossibili scadenze. Smetto per un attimo di farmi domande, di provare a rispondere, di rivivere, di cercare di comprendere. L’amarezza e la delusione sono veleno. Sono fumo, che non fa respirare. Rilasso le spalle e il collo. Cerco di allontanare un mal di testa infernale che dura da settantadue ore, nonostante la chimica. Cerco di ritagliare un momento. Un istante. Di quiete.
Ho sempre preferito le parole alle musica muta. Le parole delle canzoni. Ho sezionato canzoni a centinaia, verso per verso, parola per parola. Le ho fatte mie. Oppure le ho gettate alle spalle assieme agli altri cumuli di banalità che viaggiano nell’etere. Per me la musica era musica con le parole sopra. Preferibilmente scarna. Preferibilmente acustica.
Poi una sera d’estate ho iniziato ad amare anche la musica. La musica nuda. Senza parole aggiunte. La musica che basta a se stessa. Perfetta.
Una sera d’estate. Ero nella casa al mare. Seduta sul balcone, con la schiena appoggiata al muro ed i piedi nudi e abbronzanti contro la ringhiera. Un albicocca. Non riesco a collocare nel tempo il momento. Ma c’era ancora mio nonno. E stava bene. Visto che era uscito, ed era andato a sentire un’orchestra suonare. Potevo immaginare qualcosa di più noioso. Che poi in ogni caso non sarei sfuggita al concerto. Il paese è piccolo e la casa stava proprio nel centro, ad una decina di passi dal concerto. Scalpiccio di piedi, vociare indistinto, risate e pianti di bambini. Le prime stelle che sorgevano in mezzo al cielo, sopra quei tetti così familiari e così distanti. Fatto sta che la musica è iniziata. Ed era bellissima, perfetta, scrosciante e totale. L’orchestra suonava colonne sonore. La notte esplodeva e perdeva i contorni. Solo cielo e mare e vento e stelle. Ed io restavo lì. Piedi nudi e albicocche. Per ore. Fino a che il direttore augurava a tutti la buona notte.
Da quella notte ho iniziato ad amare la musica nuda. Generi e suoni diversi, per ragioni e in momenti diversi. Senza pretese di raffinatezza. Dischi. Molti. Su tutti uno. Questo. Che suona ancora, ogni volta, come quella sera. Per me. E mi ritaglia attorno un momento perfetto. Un istante. Di quiete.