venerdì 16 maggio 2008

(ricordi di) un'estate

Ieri sera.
Aspettavo il treno seduta su una panchina della stazione, sfidando il vento fresco da temporale che accarezzava Milano.
La voce metallica annuncia in partenza dal binario 11 il treno delle 20.27 per Ventimiglia. Alzo lo sguardo dal libro che ho tra le mani e vedo leggermente inclinato sulla curva di Lambrate, un interregionale verde e bianco. Di colpo una malinconia densa e intensa mi sale fino alle gola insieme alle immagini di una lunga estate dannatamente calda.
Quando prendevo quel treno. E molti altri. Quando Milano non era un estremo del viaggio ma solo un crocevia in mezzo a spostamenti quasi casuali. A seguire un po’ il vento, un po’ il destino. A tornare un po’ a vivere.
Il treno lascia la stazione traballando e scivola via, oltre il mio sguardo, e io rimango tutta sola. A svolazzare tra i miei pensieri, tra le immagini, i frammenti di una vita che non sembra neppure esistita. Ricordi.
Un’estate calda. Caldissima. Piena di luce. Accecante quasi. Amici trovati e persi. Giornate lunghissime. Canottierine. Appunti a chilometri. Liuk mangiati a metà. Sere chiare. Tanto silenzio. Una città sconosciuta. Costruita nel mezzo della pianura. Pianura. Dappertutto. Un orizzonte piatto e distante. Pioppi. Zanzare. Mais. Rogge. E viaggi lunghi verso Milano in treni senza aria condizionata. Pieni di allergia. Solo per cambiare e prendere un altro treno, verso un’altra pianura, di Po e risaie. Guardare la sera diventare ombra, tuffandosi in gallerie di inchiostro e male alle orecchie fino ad arrivare, ormai buio, al mare.
Quel mare morbido e lento nel buio. Quel mare pieno di sapori. Quel mare pieno di amarezza e dolore. Di vita. La vita quando diventa dura. E respirarlo. Per trovarci dentro la serenità perduta. Per trovarci dentro il modo di affrontare la vita così come mi si disegnava intorno. Quel mare da lasciare già in un’alba troppo vicina per partire di nuovo. Ed andare a cercare qualcosa che fosse mio. E poi tornare. E partire. Un viaggio lungo. Un viaggio intorno. A me stessa.
Quella è stata l’estate in cui sono diventata grande.
...
è tempo di imparare a guardare
è tempo di ripulire il pensiero
è tempo di dominare il fuoco
è tempo di ascoltare davvero
il giorno sprofonda nei solchi bruciati di questa distesa
tu lo sapevi che nessuna gioia nasce senza un dolore
basta solo farlo guarire
basta solo lasciarlo entrare...
(C.D.)

mercoledì 14 maggio 2008

disillusione (et varie)

Entrano voci dalla finestra. Tutto sembra lontano, nel sole, nel vento, nel traffico di Milano. Io resto. Il cucchiaio rigirato lentamente in un vasetto di yogurt alla pesca [resta sempre per ultimo].
Mi hanno portato una rosa questa mattina. Rubata. L’ho messa in una bottiglietta di plastica. Si è aperta. È sbocciata. La bellezza è silenziosa. Una macchia di colore [perfetta] contro il muro [bianco].
Il sole gira nel cielo prendendomi la mattina alla spalle e la sera sfiorandomi il viso. Mi sembra di sentire il suono degli ingranaggi ancestrali che muovo gli astri. Un rumore di fondo. Come lo scricchiolio dei petali che si aprono. Alla luce.
Sono di nuovo aria e acqua. Ma la serenità è solo apparente. È la calma triste della rabbia che repressa si è tramutata in sconforto, disillusione ed infine smarrimento. È la calma che segue un pianto lunghissimo, quando vorresti dormire, senza neppure sognare. O forse mi sento delusa solo nella misura in cui fingo di crederci ancora. Non saprei.
Si fanno dei sogni. A volte. Si combatte al fianco di eroi. A volte. Forse bisognerebbe scegliere meglio i propri eroi. Forse sarebbe meglio non averne affatto. Di sognare invece credo non si possa farne a meno. Anche a costo di finire disillusi, in una giornata di sole, ad ascoltare il suono degli astri o i petali di una rosa dischiudersi al sole.
E la cosa peggiore e che domani ci crederò ancora. Se già non ci sto credendo ora.
...

lunedì 12 maggio 2008

panico da palcoscenico

E' difficile. Pensare di avere ben poco da insegnare, ancora tanto da imparare, e mettersi in cattedra a cercare di spiegare quello che so, avendone ben chiaro l'incompletezza. Non sono abbastanza sicura di me stessa per risuitare convincente. Mi pare. Sono fragile. Ai loro occhi. E ai miei.
Arrosisco. Sempre. Imbarazzo. Vorrei sparire, dileguarmi. Da troppo poco ho lasciato i banchi, le sedie delle ultime file. Sono ancora nelle loro teste. So come giudicano, a cosa pensano, cosa guardano, cosa vedono. Non posso fingere di non saperlo. E questo mi fa paura. E la paura fa il resto. E io mi sento qualcosa come la metà di niente.
Poi mi rendo conto che tra pochi mesi non dovrò più preoccuparmene. E mi viene il dubbio di essermi giocata, male, una possibilità. Fisso le teste sparpagliate a decine in un'aula troppo grande. Classe 1984. Chi più. Chi meno. E io? Sono come loro ma non sono più come loro. Faccio il mio tentativo sperando possa andare bene. Devo solo entrare nel personaggio. Devo solo recitare la mia parte.
Lasciatemi imparare. Datemi una mano. O fatemi a pezzi una volta per tutte.
...

domenica 11 maggio 2008

Cantare e sei cose che mi piacciono

Magliettina bianca, calzoncini grigi, infradito. La musica riempie la stanza. La corsa al parco ha dato il corpo di grazia, se mai ce ne fosse bisogno, alla mia giornata allergica. La gola ringrazia e a me sembra di respirare sassi. Tuttosommato se una non vuole prencedere medicinali e non vuole rinunciare alla corsa deve sopportare. E io ho deciso a priori che l'allergia è una cosa sopportabile. E sopporto stoicamente annegandomi in un bicchiere di mate al limone e ascoltando una canzone che mi piace.
Il cielo si è riempito di nuvole ma mi pare faccia troppo caldo. Non ho voglia di riflettere sul modo in cui mi sento. Il modo in cui questo cielo mi fa sentire. Alzo il volume e canto qualche parola sparsa con la mia vocetta accennata e ridicola. La gola scricchiola di sassi e spine e mi ricorda che forse è meglio star zitta. I timpani concordano. Ma a volte non si può fare a meno di cantare.

Sei cose che mi piace fare le ho già scritte, quindi tenterò di vagheggiare sei cose che mi piacciono.
La prima. Mi piace Milano. Mi piace Milano la sera. Nelle sere d'inverno e nelle sere d'estate. Mi piace Milano la mattina. Mi piace Milano sempre. Mi piace e mi immalinconisce e mi fa ridere e mi fa piangere. Amo Milano. E una città maledettamente bella. Nonostante certi milanesi.
La seconda. Mi piace il mare. E non credo servano dettagli ulteriori.
La terza. Il te. Io amo il te. Caldo e profumato di spezie nella tazze colorate dell'inverno. Freddo a litri nelle giornate d'estate. Ma anche caldo d'estate perchè no, io bevo il te caldo anche in spiaggia. Amo il te. E la funzione consolatoria e tranquillante che ha su di me.
La quarta. Amo il profumo che ha la pelle. La mia. La sua. Quelle delle persone che amo. Il sapore famigliare dell'affetto con cui riempirsi nel narici. Amo gli odori, i profumo, l'olfatto è il senso più evocativo. E sopra tutto amo l'odore della pelle.
La quinta. Amo la natura. La natura che esplode. La natura che tiene il tempo della via. Amo le piante. Il fiorire e l'appassire delle stagioni. Amo i dettagli, i colori, le forme.
Ecco i miei bei compitini. Chi volesse.