Ieri sera.
Aspettavo il treno seduta su una panchina della stazione, sfidando il vento fresco da temporale che accarezzava Milano.
La voce metallica annuncia in partenza dal binario 11 il treno delle 20.27 per Ventimiglia. Alzo lo sguardo dal libro che ho tra le mani e vedo leggermente inclinato sulla curva di Lambrate, un interregionale verde e bianco. Di colpo una malinconia densa e intensa mi sale fino alle gola insieme alle immagini di una lunga estate dannatamente calda.
Quando prendevo quel treno. E molti altri. Quando Milano non era un estremo del viaggio ma solo un crocevia in mezzo a spostamenti quasi casuali. A seguire un po’ il vento, un po’ il destino. A tornare un po’ a vivere.
Il treno lascia la stazione traballando e scivola via, oltre il mio sguardo, e io rimango tutta sola. A svolazzare tra i miei pensieri, tra le immagini, i frammenti di una vita che non sembra neppure esistita. Ricordi.
Un’estate calda. Caldissima. Piena di luce. Accecante quasi. Amici trovati e persi. Giornate lunghissime. Canottierine. Appunti a chilometri. Liuk mangiati a metà. Sere chiare. Tanto silenzio. Una città sconosciuta. Costruita nel mezzo della pianura. Pianura. Dappertutto. Un orizzonte piatto e distante. Pioppi. Zanzare. Mais. Rogge. E viaggi lunghi verso Milano in treni senza aria condizionata. Pieni di allergia. Solo per cambiare e prendere un altro treno, verso un’altra pianura, di Po e risaie. Guardare la sera diventare ombra, tuffandosi in gallerie di inchiostro e male alle orecchie fino ad arrivare, ormai buio, al mare.
Aspettavo il treno seduta su una panchina della stazione, sfidando il vento fresco da temporale che accarezzava Milano.
La voce metallica annuncia in partenza dal binario 11 il treno delle 20.27 per Ventimiglia. Alzo lo sguardo dal libro che ho tra le mani e vedo leggermente inclinato sulla curva di Lambrate, un interregionale verde e bianco. Di colpo una malinconia densa e intensa mi sale fino alle gola insieme alle immagini di una lunga estate dannatamente calda.
Quando prendevo quel treno. E molti altri. Quando Milano non era un estremo del viaggio ma solo un crocevia in mezzo a spostamenti quasi casuali. A seguire un po’ il vento, un po’ il destino. A tornare un po’ a vivere.
Il treno lascia la stazione traballando e scivola via, oltre il mio sguardo, e io rimango tutta sola. A svolazzare tra i miei pensieri, tra le immagini, i frammenti di una vita che non sembra neppure esistita. Ricordi.
Un’estate calda. Caldissima. Piena di luce. Accecante quasi. Amici trovati e persi. Giornate lunghissime. Canottierine. Appunti a chilometri. Liuk mangiati a metà. Sere chiare. Tanto silenzio. Una città sconosciuta. Costruita nel mezzo della pianura. Pianura. Dappertutto. Un orizzonte piatto e distante. Pioppi. Zanzare. Mais. Rogge. E viaggi lunghi verso Milano in treni senza aria condizionata. Pieni di allergia. Solo per cambiare e prendere un altro treno, verso un’altra pianura, di Po e risaie. Guardare la sera diventare ombra, tuffandosi in gallerie di inchiostro e male alle orecchie fino ad arrivare, ormai buio, al mare.
Quel mare morbido e lento nel buio. Quel mare pieno di sapori. Quel mare pieno di amarezza e dolore. Di vita. La vita quando diventa dura. E respirarlo. Per trovarci dentro la serenità perduta. Per trovarci dentro il modo di affrontare la vita così come mi si disegnava intorno. Quel mare da lasciare già in un’alba troppo vicina per partire di nuovo. Ed andare a cercare qualcosa che fosse mio. E poi tornare. E partire. Un viaggio lungo. Un viaggio intorno. A me stessa.
Quella è stata l’estate in cui sono diventata grande.
Quella è stata l’estate in cui sono diventata grande.
...
è tempo di imparare a guardare
è tempo di ripulire il pensiero
è tempo di dominare il fuoco
è tempo di ascoltare davvero
il giorno sprofonda nei solchi bruciati di questa distesa
tu lo sapevi che nessuna gioia nasce senza un dolore
basta solo farlo guarire
basta solo lasciarlo entrare...
(C.D.)