venerdì 30 gennaio 2009

blogS

è dall'agosto 2006 che tengo, senza soluzione di continuità, un blog. prima di essere la ragazza polpetta di riso avevo un altro blog, abbandonato per la scarsa flessibiltà del sito che lo ospitava, non per ragioni personali. oggi mi sono quasi stupita di ritrovarlo lì, come lo avevo lasciato. e ho avuto voglia di copiare tutti i post da qui e incollarsi lì, per raggrupparmi, per tornare una sola. solo che perderei la cronologia degli interventi credo. e mi dispiacerebbe. così lascio divise la mia me passata e la mia me attuale. anche se ho iniziato a copiare i post e a stamparli per rileggerli. non so perchè ma temo che questo non porterà a nulla di buono...


re-open


Scrivere è una necessità e una condanna, un bisogno ed una liberazione. Soprattutto quando l’emozione di gonfia dentro come la marea. E la calma apparente viene tradita dallo sguardo. E come onde salgono per la gola la rabbia e la frustrazione, la paure e il più completo smarrimento. Istanti. Che passano e vanno a nascondersi tra le cose dimenticate, per difesa. Ma se ne scrivi, se ne scrivi resteranno. A ricordarti quella che sei adesso. A farti male. Forse servirebbe. O forse no.

A volte mi pare che ciò che non scrivo non esista. Ciò che non scrivo lo vivo solo a metà. E forse se ora non scrivessi quello che sento addosso non esisterebbe. Ma, l’ho detto, scrivere è una liberazione ed una condanna. E sono condannata a vivere fino in fondo. Per quanto cerchi di fuggire sempre qui dovrò tornare. Sempre a me stessa.

Mi sento come se fossi sempre sul punto di prendere il largo con la mia barca. Ma non partissi mai. Perché non c’è vento e non c’è benzina, né remi. E la mia barca resta a stagnare nella laguna e minuscole alghe versd si attaccano al suo scafo e la pioggia e il sole invecchiano il legno e le vele, la salsedine appanna i vetri.

Ed è frustrante. E penso quasi che la mia rabbia è tanta che se mi tuffassi in acqua portei spingere la barca a braccia. E mi fa soffrire. E mi sento esattamente così, dispersa ed inerme in un porto nel niente. Ad osservare il cielo per cercare segnali di speranza, il volo degli uccelli che anticipi l’arrivo di venti favorevoli. A rimanere soffocata dalla delusione quando la bonaccia sfinisce la mia pazienza. E mangia i giorni.

Ed è peggio sentirsi come mi sento. E come non voglio dire. Nella speranza di potermene dimenticare.