Settembre suona come musica dentro la mia testa. Cieli blu di aria fredda che gela la punta delle dita e i piedi infilati dentro le scarpe senza calze e senza nessuna voglia. Nonostante quello che dicono intorno penso che chi se ne va abbia sempre la peggio. Nonostante oggi il presente mi faccia piuttosto schifo e il futuro paura, non posso esimermi dal respirare questo vento e dal goderne coi polmoni spalancati e gli occhi rossi di polvere e luce.
Ho messo in fila le delusioni e i fallimenti come tessere di un domino ghignante per poi colpire la prima della fila provocando a catena la caduta di tutte le altre. A che serve. A che serve mettere in scena la mia delusione, la mia progressiva disillusione, il mio disinnamoramento e il mio crescente disincanto. A darmi l’alibi di sentirmi, banalmente, un po’ vittima. Evito. Vittima non mi ci sento. Forse colpevole involontaria, o volontaria a volte. Di aver perso qualche occasione, di averne sfiorate altre, mancate altre ancora. Ma se penso a me, alla me stessa adulta dico, non ho alla ragazzina isterica che misura la vita in cm (sebbene le due entità spesso convivano ancora sotto il medesimo tetto), vedo una continua ricerca, movimento, cambiamento. Mi sembra che nulla sia statico nei mie i pensieri, che tutto scorra, muti, evolva (dire se in meglio o in peggio va oltre la mia comprensione). E sebbene i miei sogni sembrino destinati ad andare in frantumi con sorprendente facilità mi ritrovo a pensare che per ogni sogno che si rompe saprò costruirne uno nuovo. E poi altri. Credendoci. Non dico meno, no, ma in modo diverso. Con più disincanto. Ma anche con più cognizione di causa. Credere a questo, già, potrebbe essere un inizio.
Ho messo in fila le delusioni e i fallimenti come tessere di un domino ghignante per poi colpire la prima della fila provocando a catena la caduta di tutte le altre. A che serve. A che serve mettere in scena la mia delusione, la mia progressiva disillusione, il mio disinnamoramento e il mio crescente disincanto. A darmi l’alibi di sentirmi, banalmente, un po’ vittima. Evito. Vittima non mi ci sento. Forse colpevole involontaria, o volontaria a volte. Di aver perso qualche occasione, di averne sfiorate altre, mancate altre ancora. Ma se penso a me, alla me stessa adulta dico, non ho alla ragazzina isterica che misura la vita in cm (sebbene le due entità spesso convivano ancora sotto il medesimo tetto), vedo una continua ricerca, movimento, cambiamento. Mi sembra che nulla sia statico nei mie i pensieri, che tutto scorra, muti, evolva (dire se in meglio o in peggio va oltre la mia comprensione). E sebbene i miei sogni sembrino destinati ad andare in frantumi con sorprendente facilità mi ritrovo a pensare che per ogni sogno che si rompe saprò costruirne uno nuovo. E poi altri. Credendoci. Non dico meno, no, ma in modo diverso. Con più disincanto. Ma anche con più cognizione di causa. Credere a questo, già, potrebbe essere un inizio.
Ma ho perso il filo. Settembre dicevo. È meglio essere vivi. Dicevo. Per sentire il primo vento freddo sulle palpebre chiuse. Per guardare il sole impallidire e i colori farsi più caldi. Per vedere le stagioni che si rinnovano. Per prendere delusioni sulla faccia. Magari piangere. E poi provare a disegnare sorrisi nuovi. Magari un po’ amari. Speranze. Che sanno di uva fragola, a settembre.