Quello che era la soddisfazione di un quotidiano bisogno è diventanto un privilegio. Un lusso per occasioni speciali.
Ma il cielo non è cambiato. Ma io non sono cambiata. E l'urgenza è la stessa. Il bisogno. L'esigenza. E tutto quanto non trova parole finisce per restarmi sospeso tra i pensieri, nello stomaco e sotto la pelle. Brividi e spine. Vento caldo. Deserto.
Ho addosso una stanchezza che sembra accumulata da mille anni di cammino. Ma sono molti di meno. Ma io sono molto di meno.
Sere che sanno di pioggia e caldo. Vento che porta via l'umidità e i temporali. Chilometri a piedi nudi sul pavimento. Sogni disturbati. Interferenze.
Le interferenze delle persone da due lire che continuano a parlare e che mi consumano l'aria e che mi lasciano arida e spenta. [Arida e spenta miodio, come certe braci inutili, come certi corpi vuoti]. E loro parlano ancora. E ancora. Ed io che non riesco a gridare figuriamoci a gridarci sopra. E parlano. Parole inutili all'infinito.
Ed è quando. Quando continuare a pensare è quasi un dolore. Ma poi preferisco ancora il dolore di provare qualcosa che la calma piatta di non provare più niente. Anche se annullarmi sarebbe più facile. Ma io ci sono e respiro ancora.
Oggi chiusa nella calma irreale di questa stanza. A distanza di sopravvivenza. Ripasso le due o tre cose che mi fanno stare meglio. Che danno un senso al colore del cielo e alla piega dalle mie labbra. Che mi fanno sperare di essere ancora qualcosa di meglio, di avere ancora qualcosa da dire [di avere ancora aria da respirare, tramonti da bruciare, notti da vegliare, mari in cui nuotare con la testa sottacqua, vento da cui farmi asciugare gli occhi] e di avere io dentro quello che non c'è fuori.