9 luglio.
Come se tutto potesse cambiare. Da adesso. Ad adesso. Come se una giornata sola potesse raccogliere tra le mani chilometri di vita, anni, etti, carati. Tutto può restare un attimo. Tutto. O nulla.
Quello che credevi di rimpiangere hai già smesso di desiderarlo. Mentre passano i giorni. E i tramonti. E ti fai la doccia al te verde. Ti cambi i vestiti. Ti guardi allo specchio. Ed è sera e poi mattina. La sveglia alle 6.05 suona Neil Young ed è estate. Un altro giorno. Un’altra vita. Mangi un’albicocca scendendo le scale. Canti una canzone tra te e te. Oppure scrivi un romanzo col pensiero e lo affidi così, al vento, senza che ne resti scritta traccia alcuna (non è inchiostro nero ma sangue che grandina gioia). E sei sempre te stessa. Un corpo in movimento tra le stagioni. E i deserti. Che cambiano. Respiri. Cammini. Fai la tua parte. Sei parte dell’universo. In rotazione coi pianeti. Oscillante con la maree. Evanescente. Provvisoria. Sfumata.
Suona il telefono questa mattina. La voce che mi blandisce e mi trattiene. Che non so giudicare. Seduta a tavola ad una cena sento che vorrei essere altrove. Mi sento estranea, aliena. E mi accorgo che ci sono già, altrove. La nave è salpata e io sono a bordo. E adesso lo sento il vento tra i capelli e l’odore dell’oceano. Salsedine dentro la tua bocca. In una notte insonne di luna piena che porta un nome sulle labbra. La mia finestra sul cielo. Un letto enorme. Odore di erba e buio. L’alba. I pensieri. Le dita della mie mani, farfalle senza riposo.
Non esitare. Poiché potrebbe finire domani.
[...Ma sono l’unica cosa che mi rimane. Io sono l’ultima cosa che ho. Sarò la prima cosa che avrò. Se sono l’ultima cosa che mi rimane. Sarò la prima cosa che mi rimane...]
14 luglio.
Quello che manca. Quello che mi manca. Sotto il sole. Cielo denso d’estate. Il mio viso riflesso nell’umidità dell’aria. Diamanti. Lacrime. Sudore. Non so. Che cosa ci spinge ad essere quello che siamo, che cosa motiva la trama delle giornate, del tempo. Quella quadrettatura sottile su cui disegnare parole. Sostegno. Gabbia. La stanchezza che sale dalle caviglie fino alle palpebre.
Per che cosa è che sono viva. Per che cosa respiro. Apro gli occhi la mattina. Mentre il tempo mi stritola, mi incasella. Stringe. Per che cosa io cerco di divincolarmi, di trovare attimi, scorgere dettagli. Di nuovo la vita è delle piccola cose. Stancamente ripongo pezzi di sogni infranti dentro una scatola di vetro. E ne invento di nuovi. Finché né avrò di fantasia per inventarli. Finché non basteranno i treni soppressi, le frustrazioni di funzionari ingrigiti, le distanze, le telefonate troppo costose, i titoli dei giornali, i bestseller senza anima, le canzoni inutili. Finché non basteranno a togliermi il fiato. A farmi desistere. A sbiadirmi.
23 luglio.
Chiudi gli occhi. Sento il vento sussurrare. Chiudili. E sparirà questa sensazione di troppo. Di troppa luce. Di troppo caldo. Di troppo asfalto sotto i tuoi piedi. E troppo piani per questi palazzi. Di troppe chiacchere. Di troppe ore di veglia. Chiudili. E non ci sarà che vento. E capelli che sfiorano il viso. E vibrare leggero di polmoni che si riempiono e di cellule che respirano. La vita timida e tenace sotto la mia pelle.
Come se tutto potesse cambiare. Da adesso. Ad adesso. Come se una giornata sola potesse raccogliere tra le mani chilometri di vita, anni, etti, carati. Tutto può restare un attimo. Tutto. O nulla.
Quello che credevi di rimpiangere hai già smesso di desiderarlo. Mentre passano i giorni. E i tramonti. E ti fai la doccia al te verde. Ti cambi i vestiti. Ti guardi allo specchio. Ed è sera e poi mattina. La sveglia alle 6.05 suona Neil Young ed è estate. Un altro giorno. Un’altra vita. Mangi un’albicocca scendendo le scale. Canti una canzone tra te e te. Oppure scrivi un romanzo col pensiero e lo affidi così, al vento, senza che ne resti scritta traccia alcuna (non è inchiostro nero ma sangue che grandina gioia). E sei sempre te stessa. Un corpo in movimento tra le stagioni. E i deserti. Che cambiano. Respiri. Cammini. Fai la tua parte. Sei parte dell’universo. In rotazione coi pianeti. Oscillante con la maree. Evanescente. Provvisoria. Sfumata.
Suona il telefono questa mattina. La voce che mi blandisce e mi trattiene. Che non so giudicare. Seduta a tavola ad una cena sento che vorrei essere altrove. Mi sento estranea, aliena. E mi accorgo che ci sono già, altrove. La nave è salpata e io sono a bordo. E adesso lo sento il vento tra i capelli e l’odore dell’oceano. Salsedine dentro la tua bocca. In una notte insonne di luna piena che porta un nome sulle labbra. La mia finestra sul cielo. Un letto enorme. Odore di erba e buio. L’alba. I pensieri. Le dita della mie mani, farfalle senza riposo.
Non esitare. Poiché potrebbe finire domani.
[...Ma sono l’unica cosa che mi rimane. Io sono l’ultima cosa che ho. Sarò la prima cosa che avrò. Se sono l’ultima cosa che mi rimane. Sarò la prima cosa che mi rimane...]
14 luglio.
Quello che manca. Quello che mi manca. Sotto il sole. Cielo denso d’estate. Il mio viso riflesso nell’umidità dell’aria. Diamanti. Lacrime. Sudore. Non so. Che cosa ci spinge ad essere quello che siamo, che cosa motiva la trama delle giornate, del tempo. Quella quadrettatura sottile su cui disegnare parole. Sostegno. Gabbia. La stanchezza che sale dalle caviglie fino alle palpebre.
Per che cosa è che sono viva. Per che cosa respiro. Apro gli occhi la mattina. Mentre il tempo mi stritola, mi incasella. Stringe. Per che cosa io cerco di divincolarmi, di trovare attimi, scorgere dettagli. Di nuovo la vita è delle piccola cose. Stancamente ripongo pezzi di sogni infranti dentro una scatola di vetro. E ne invento di nuovi. Finché né avrò di fantasia per inventarli. Finché non basteranno i treni soppressi, le frustrazioni di funzionari ingrigiti, le distanze, le telefonate troppo costose, i titoli dei giornali, i bestseller senza anima, le canzoni inutili. Finché non basteranno a togliermi il fiato. A farmi desistere. A sbiadirmi.
23 luglio.
Chiudi gli occhi. Sento il vento sussurrare. Chiudili. E sparirà questa sensazione di troppo. Di troppa luce. Di troppo caldo. Di troppo asfalto sotto i tuoi piedi. E troppo piani per questi palazzi. Di troppe chiacchere. Di troppe ore di veglia. Chiudili. E non ci sarà che vento. E capelli che sfiorano il viso. E vibrare leggero di polmoni che si riempiono e di cellule che respirano. La vita timida e tenace sotto la mia pelle.