Sono una che sta in silenzio. A volte cerco di impormi di partecipare alla conversazione. A volte, semplicemente, faccio come mi viene. E quello che mi viene è, spesso, ascoltare, magari sorridere, magari perdere lo sguardo altrove. Delle volte la comunicazione mi costa fatica. Delle volte le parole scivolano fuori dalle mia labbra come acqua fresca di un ruscello. Ma altre bruciano come sale e si asciugano prima ancora di venire a contatto con l’aridità dell’aria. Diciamocelo: delle volte passo per stronza, delle volte per quella che se la tira, delle volte passo, semplicemente, attraverso. Posso farmene un cruccio. Provo a vedermi dall’esterno. Provo a provare. O mi lascio semplicemente andare come mi viene.
Questo non vuole dire che non mi piaccia parlare o che io non sappia comunicare. O che non voglia. Io ho sete di comunicazione, di contatto. È la fase preliminare che non mi appartiene. Il discorso da corridoio, da ascensore, da tavolo da pranzo. Le quattro chiacchere. Mi manca l’approccio. Tendo, implacabilmente, a tagliare corto. Specie quando non conosco l’interlocutore, quando sono stanca, quando non mi interessa, quando non mi sento a mio agio. Perché quando mi ci sento, a mio agio, posso parlare per ore. Ma a quel punto quella fase della conversazione è già superata e quindi, in effetti, il problema non sussiste.
Credo sia questo l’introversione, la naturalezza di vivere dentro, lo sforzo di rivoltarsi all’esterno. Il risultato non è dei migliori, un perenne senso di inadeguatezza. Per qualsiasi lato io mi prenda mi sento sbagliata, storta, aliena. Ma ora sono troppo stanca per lottare contro la mia pelle e le mie arterie e quindi sono sgradevolmente sollevata dal fatto di viaggiare sola. Salgo sul treno con gli auricolari nelle orecchie. Cerco il mio posto (carrozza 11-posto32-finestrino) per affogarmi senza ritegno in questo meraviglioso cielo tormentato, nello schermino del mio nuovo mini pc che, magie della tecnica, mi permette di scrivere dappertutto, nelle pagine di un qualche romanzo o nei minuscoli dettagli lirici di qualche canzone. Sempre a cercare quei minuscoli ritagli, piccoli pezzi, da fare miei. Che siano miei. Dove non dover essere niente.
Questo non vuole dire che non mi piaccia parlare o che io non sappia comunicare. O che non voglia. Io ho sete di comunicazione, di contatto. È la fase preliminare che non mi appartiene. Il discorso da corridoio, da ascensore, da tavolo da pranzo. Le quattro chiacchere. Mi manca l’approccio. Tendo, implacabilmente, a tagliare corto. Specie quando non conosco l’interlocutore, quando sono stanca, quando non mi interessa, quando non mi sento a mio agio. Perché quando mi ci sento, a mio agio, posso parlare per ore. Ma a quel punto quella fase della conversazione è già superata e quindi, in effetti, il problema non sussiste.
Credo sia questo l’introversione, la naturalezza di vivere dentro, lo sforzo di rivoltarsi all’esterno. Il risultato non è dei migliori, un perenne senso di inadeguatezza. Per qualsiasi lato io mi prenda mi sento sbagliata, storta, aliena. Ma ora sono troppo stanca per lottare contro la mia pelle e le mie arterie e quindi sono sgradevolmente sollevata dal fatto di viaggiare sola. Salgo sul treno con gli auricolari nelle orecchie. Cerco il mio posto (carrozza 11-posto32-finestrino) per affogarmi senza ritegno in questo meraviglioso cielo tormentato, nello schermino del mio nuovo mini pc che, magie della tecnica, mi permette di scrivere dappertutto, nelle pagine di un qualche romanzo o nei minuscoli dettagli lirici di qualche canzone. Sempre a cercare quei minuscoli ritagli, piccoli pezzi, da fare miei. Che siano miei. Dove non dover essere niente.
2 commenti:
senso comune aime'
posso copiare e incollarmelo??
un abbraccio
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